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Lo “strano caso” del carcere San Pedro di La Paz.

Lo “strano caso” del carcere San Pedro di La Paz.

Di Barbara Magalotti

Un vecchio muro di cinta, un portone e un cancello malmesso che separano il continuo viavai di poliziotti armati e imbronciati dal formicolio vociante dei detenuti oltre le sbarre:

facce distrutte, coperte di tagli, cicatrici infette, gonfie dall’alcol e dalla droga, segni di malattie epidermiche ovunque,  bocche disastrate, sorrisi sdentati, a tratti divertiti, ma più spesso tristi, rassegnati…mani coperte di ferite, sporche, secolarmente unte…unghie fossili, piedi scalzi, alluci all’avanscoperta da scarpe fuori moda, distrutte da anni. 2500 anime rinchiuse in un “purgatorio terrestre”, accompagnate dai più o meno 400 bambini, che seguono i loro padri in questa difficile esperienza, loro malgrado. Carcere San Pedro di La Paz, Bolivia: un carcere spesso sotto i riflettori della stampa e della TV, negli ultimi anni, soprattutto per via del suo sovraffollamento (era stato costruito per ospitare non più di 500 detenuti) e le condizioni disastrose della struttura che portano ad evidenti e gravi problemi di ordine igienico/sanitario e psicologico per i detenuti e i loro figli che si trovano a dover vivere, spesso per parecchi anni, in condizioni veramente al di là di un’umana sopportabilità. strano-caso1

Il paradosso di questo carcere e’ che, una volta entrato, il detenuto non e’ controllato da nessuno e, specularmente, non viene nemmeno tutelato in caso di aggressione, violenza o abuso: i detenuti stanno dentro le mura, la polizia carceraria sta fuori. Le giornate non sono scandite da orari, attività o da un rigido regolamento che i detenuti sono tenuti a seguire. Tutto ciò che succede all’interno del carcere soggiace al “regolamento interno” dei detenuti, che si organizzano in maniera del tutto autonoma, eleggendo alcuni delegati che stabiliscono norme e regole di vita e convivenza da seguire all’interno di quelle 4 mura. 

Per chi si affida ai parametri dell’iconografia e l’immaginario cinematografico della struttura rigidamente chiusa e altamente sorvegliata, di impronta per così dire “occidentale”, il San Pedro è sicuramente un carcere “molto particolare”. Di certo non lo è se si considerano gli standard latinoamericani, dove è assolutamente normale una organizzazione “polizia fuori-detenuti dentro” delle strutture detentive e dove in certi casi, ce la si passa meglio dentro un carcere, con almeno il rancio assicurato, che su una strada a morire di fame e stenti. 

Un’altra ironica particolarità di questa istituzione carceraria, e’ che le celle per i detenuti sono a pagamento. I detenuti che arrivano al carcere devono pagare un mensile per poter alloggiare all’interno di una cella, oppure “comprarla”, pagando una cifra forfait, ai proprietari delle celle (altri detenuti che nel tempo si sono comprati una, due, tre celle, con l’aiuto dei familiari o di vari traffici illegali). Risulta evidente come una differente situazione socio-economica rappresenti una forte discriminante, fondamentale per la qualità stessa della permanenza in carcere: chi infatti possiede molta disponibilità di denaro (solitamente individui appartenenti a gruppi della malavita organizzata, grossi narcotrafficanti, a volte detenuti stranieri, ecc.) o una famiglia che può farsi carico di questa spesa, può permettersi un tetto sotto cui dormire, chi al contrario si trova in una condizione economica critica (persone abbandonate dalla famiglia, ragazzi di strada, ecc.) si deve adattare a dormire all’aperto sotto tettoie o balconi. In generale, però, non manca collaborazione e aiuto reciproco fra i detenuti, in particolare quelli che si trovano nelle condizioni economiche più penose: spesso proprio i più poveri condividono la stanza con chi non ha la possibilità di pagarsi il posto letto, dividono con loro il pasto, il vestiario o le cose di cui necessitano. 

All’interno delle sue gigantesche mura, il San Pedro, e’ strutturato come un piccolo villaggio, con al suo interno viuzze, accenni di portici, piccole piazzette circondate da costruzioni di due o tre piani (le celle). Insomma un vero e proprio “piccolo centro urbano” dove e’ possibile trovare piccole rivendite di generi alimentari, bancarelle varie e botteghe di calzolai, idraulici, fabbri, carpentieri, fotografi, idraulici, arrangiate all’interno delle celle, dove chi ha un po’ di ingegno e voglia di lavorare può organizzare una attività in proprio e guadagnare qualche soldo per tirare avanti un po’ meglio. C’è una sala da biliardo, una falegnameria che produce mobili che vengono venduti all’esterno a privati o anche ad alcuni uffici. Il brulicare, dentro al San Pedro è continuo: c’e’ chi vende il proprio artigianato, chi arrangia tavolini e sedie fuori dalla propria cella per servire caffè o frullati. C’è anche chi corre avanti indietro tra il cancello d’ingresso e i meandri più nascosti del carcere, per andare a chiamare i detenuti che ricevono visite dai parenti: si fanno chiamare “taxi”, proprio perché ti portano chi vuoi direttamente al cancello, dove tu ti fermi ad aspettare. 

Il flusso di ingresso di droga e alcol è regolato da mazzette elargite alla polizia penitenziaria, che chiude gli occhi e le orecchie di fronte ad un sostanzioso arrotondamento dello stipendio in contanti. 

strano-caso2Una pratica diffusa per molti anni (e che facilmente ci fa intuire lo scarso controllo e soprattutto il grado di corruzione in cui versa il corpo di polizia penitenziaria), è quella delle “visite guidate” all’interno del carcere (il cosiddetto “San Pedro tour”) da parte di turisti stranieri, che pagano un “ingresso” (arrivato a circa 35 USD). La evidente immoralità di questa pratica sia da parte dei turisti (che visitano il carcere come un luogo di particolare interesse, come fosse uno zoo, noncuranti del vissuto di profondo disagio dalle persone che vi sono rinchiuse) sia da parte della polizia carceraria (che dimostra evidentemente la sua profonda corruzione), hanno portato i Direttori un po’ più civili ad ordinare il divieto assoluto di tali “visite turistiche”, ma ad ogni cambio del Direttore (e del suo grado di corruzione), c’è sempre il rischio che queste “visite guidate” ritornino in voga.

L’ambito sanitario è assolutamente trascurato: per 2500 detenuti c’è un medico in servizio solo alla mattina e una infermeria con qualche rete arrugginita e qualche materasso pulcioso piazzato sopra, in una totale, drammatica assenza di igiene. Spesso, sono alcuni detenuti ad accudire i loro compagni, offrendosi volontari per affiancare il medico ed aiutandolo nella somministrazione dei farmaci agli ammalati. Anche il basilare diritto alla salute è regolato dalle condizioni economiche del detenuto: chi ha soldi può permettersi visite e cure a pagamento, chi non ha nulla, può solo pregare di non avere nulla di grave.  

Molti detenuti hanno perso il legame con la famiglia e con le loro compagne. Nella maggioranza dei casi, di fronte all’incarcerazione del marito (sinonimo spesso di gravi difficoltà di sostentamento), le compagne emigrano in altre città in cerca di lavoro e/o di migliori condizioni di vita. Sono proprio molti di questi detenuti che si trovano a dover accudire ai loro figli portandoli con sé in carcere, perché  spesso, l’abbandono da parte della ex moglie non riguarda solo il partner, ma si estende anche alla prole, per l’impossibilità di farsi carico del loro sostentamento. 

I figli dei detenuti che si trovano a condividere l’esperienza del carcere con i loro padri, sono circa 400, con un’età compresa fra i 0 e i 15 anni. E’ importante però contestualizzare culturalmente questa realtà. Ricordiamoci infatti che la presenza di bambini all’interno del carcere, è un aspetto molto diffuso in tutta l’America Latina, proprio per l’estrema povertà non solo delle famiglie dei detenuti, anche del sistema socio-sanitario statale che non riesce a farsi carico dei bambini con uno o entrambi i genitori in prigione. L’alternativa per questi bambini sarebbe l’inserimento in istituto e la separazione dal genitore fino alla maggiore età: ma cosa ci fa pensare che questa soluzione, che implica la rottura dell’unico legame affettivo significativo per questi bambini, sia quella migliore? strano-caso3

Può infatti sembrare assurdo, ma la presenza dei bambini dall’interno del carcere permette lo svilupparsi di dinamiche positive: 

-  innanzitutto spesso sono proprio i bambini che fanno in modo di mantenere i legami con la famiglia all’esterno, contribuendo ad un possibile ricongiungimento del detenuto con la compagna o con il nucleo familiare; 

- i bambini rappresentano uno stimolo per i loro padri, che devono attivarsi nella ricerca di un lavoro all’interno della struttura carceraria, per poter dare ai figli qualcosa da mangiare e dei vestiti; 

- i bambini “umanizzano” il carcere. Rendono il carcere più umano, perché la loro presenza stimola un atteggiamento di cura e di attenzione verso “il più debole”, che fa dei detenuti non solo dei “criminali” ma degli esseri umani che riscoprono la loro paternità e la mettono in pratica. 

Sicuramente la problematica è molto articolata e necessita di un’altrettanto articolato programma di intervento socio-politico per la sua risoluzione. Negli ultimi anni l’attuale governo Morales si sta muovendo per la definizione di un piano di intervento per il sostegno a questa particolare popolazione infantile, ma si sa, i tempi per il raggiungimento di un qualsivoglia risultato, sono molto lunghi. 

A partire dal settembre del 2002, sta funzionando un Centro Educativo per bambini all’interno del carcere (il “Kinder”, così viene chiamato dai bambini e dai detenuti), costruito grazie a Padre Filippo Clementi (l’allora Cappellano delle 4 carceri di La Paz), e la collaborazione della volontaria Barbara Magalotti, che da allora continua a coordinare le attività del Centro Educativo e a sensibilizzare la comunità locale e le istituzioni boliviane sulla particolare condizione vissuta dai figli dei detenuti. Aprire questo centro di attività ludiche e di laboratorio per i bambini che vivono dentro al San Pedro è stato un grande passo, per poter dare un indirizzo educativo a questi bambini ed è anche stato uno dei primi esempi in Bolivia di una cura educativa indirizzata verso la popolazione infantile residente all’interno di un carcere. Presso il Kinder vengono proposte attività ludiche e di laboratorio, sostegno scolastico, dinamiche di gruppo, uscite collettive in particolari occasioni, spettacoli per bambini ed inoltre viene distribuita quotidianamente una sostanziosa merenda, visto che i bambini, come i loro padri, hanno diritto ad un solo pasto al giorno. Oltre all’importanza sul piano educativo che il Centro sicuramente riveste, la presenza costante degli educatori e dei volontari rappresenta per i bambini un momento di incontro e di interazione sereno e diverso dalla routine carceraria alla quale sono abituati. E’ innanzitutto una presenza che da’ loro calore umano e quella vicinanza emotiva che li fa sentire accettati, amati, oggetto di quell’attenzione affettuosa alla quale hanno diritto.

Questo progetto continua ad esistere grazie all’Associazione di Volontariato “Laboratorio Solidale”, che finanzia in toto il progetto “Centro Educativo Alegrìa”: lo stipendio degli educatori per il Kinder, i materiali didattici, l’acquisto del cibo, il mantenimento dei locali, le cure sanitarie e a volte, quando i fondi lo permettono, anche le cure dentistiche per i bambini che presentano particolari problemi odontoiatrici.

strano-caso4Nonostante il grado di controllo e la gestione delle dinamiche all’interno del carcere da parte della polizia, siano praticamente inesistenti e l’organizzazione penitenziaria stessa renda praticamente impossibile un corretto, equo ed umano trattamento penitenziario (per la totale assenza di un programma di recupero psico-sociale e sanitario), nonostante l’imponenza della corruzione della polizia penitenziaria e il perpetrarsi all’interno del carcere del riflesso delle ingiustizie sociali ed economiche presenti all’esterno (chi è più ricco e ha più potere vive meglio e soprattutto più a lungo), la particolare condizione di “autonomia” che caratterizza questo carcere può portare con se’ degli aspetti che umanamente possiamo considerare positivi. Prima di tutto una minor pressione psicologica, un minor senso di oppressione, vista l’assenza della polizia all’interno delle mura e in secondo luogo la possibilità di ricevere visite praticamente 24 ore su 24 da parenti e amici. Queste condizioni rappresentano per molti una opportunità di vivere un po’ meglio l’esperienza della detenzione, di sopportare con meno angoscia l’attesa del giudizio, che molto spesso arriva dopo anni di reclusione, in una totale assenza di sostegno o interessamento da parte degli avvocati (la maggior parte d’ufficio) e totalmente dimenticati dal sistema giudiziario. 

Ci sono poi i detenuti completamente soli e abbandonati, tutti coloro che non avendo più una rete familiare e degli amici, annegano la loro tristezza nell’alcol, nella droga, nella follia della violenza o in un disperato, silenzioso isolamento…e aspettano. Aspettano la fine del loro “tunnel” detentivo, senza crederci ormai più, con un’ansia mista alla paura di non farcela: non farcela dentro e non farcela una volta fuori dal carcere. Aspettano che qualcosa cambi, che qualcuno si accorga di loro e con un sorriso sincero gli tenda una mano e li chiami col loro nome, un nome che fanno fatica a ricordare. E’ soprattutto per questi ultimi che i volontari dell’Associazione Laboratorio Solidale stanno progettando la realizzazione di “Casa Solidaria”, una struttura per l’accoglienza e l’accompagnamento post-penitenziario dei detenuti in uscita dal carcere di La Paz dopo lunghi anni di detenzione, per aiutarli nel loro percorso di reinserimento sociale e lavorativo, per aiutarli ad accendere una piccola luce di speranza nella propria vita.